L’NPL meeting, evento annuale organizzato da Banca Ifis e svoltosi a Cernobbio lo scorso 30 settembre, ha rivelato in modo deciso l’umore degli operatori del settore riguardo alla creazione di una bad bank europea.
Pur riconoscendo la necessità di implementare strategie mirate per contenere la nuova ondata di NPL, a cui assisteremo probabilmente nel corso del 2021, la bad bank così concepita per molti non è la soluzione.
Le previsioni sull’evoluzione degli NPL nel prossimo futuro non sono certo rosee: la stessa Banca Ifis prevede che i crediti deteriorati nei bilanci delle banche italiane potrebbero sfiorare i 139 miliardi nel 2021. Volendo poi tenere conto anche di quegli NPL che non figurano più nei bilanci bancari perché ceduti, si potrebbe arrivare a ben 385 miliardi.
La creazione di una bad bank europea si inserirebbe in questo scenario con il principale obiettivo di continuare a garantire l’accesso al credito. In base al progetto originario, le banche degli Stati membri potrebbero infatti rifinanziarsi presso la BCE cedendo i loro NPL in cambio di obbligazioni emesse dalla stessa bad bank. In questo modo, gli istituti bancari non sarebbero costretti a restringere l’accesso ai finanziamenti.
Perché l’idea non convince gli operatori del settore? Fondamentalmente, temono che venga a crearsi una distorsione di mercato. La bad bank entrerebbe in competizione con i servicer e gli investitori privati, potendo però beneficiare di un costo del capitale notevolmente inferiore.
Il rischio di distorsione si farebbe concreto nel momento in cui la bad bank non si limitasse a sanare le situazioni di crisi, ma assumesse il ruolo di vero e proprio player del mercato facendo concorrenza ai privati.
In proposito, c’è da dire che in Italia il mercato degli NPL attualmente funziona piuttosto bene, grazie all’interesse che questo settore è in grado di suscitare. Un intervento pubblico poco mirato potrebbe effettivamente rischiare di indebolirlo, con possibili ripercussioni nel lungo periodo.
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